“L’IMMIGRAZIONE: RESPONSABILITA’ E SOSTEGNO”- intervento di Klodiana Cuka in occasione del Festival del Cinema Europeo
Una tavola rotonda all’insegna del cambiamento quella che si è tenuta ieri presso la Sala 4 del Cinema Massimo di Lecce. Responsabilità e sostegno sembrano stridere con le storie di immigrazione dei nostri giorni, frasi che colpiscono nel segno ed invitano a riflettere.
Il dibattito diretto da Cristina Soldano, direttrice artistica del Festival del Cinema Europeo, vede confrontarsi illustri ospiti legati al tema dell’immigrazione, per esperienza personale e per impegno nelle attività di promozione contro il razzismo.
Il primo ad intervenire, Don Raffaele Bruno, referente regionale dell’Associazione Libera, insiste nel voler raccontare storie, senza dover rischiare di cadere nell’autoreferenzialità.
Storie di persone, nomi che hanno un volto e una voce, esuli che fuggono dal proprio paese e arrivano in Italia consapevoli del fatto che si può preferire persino il carcere alla propria nazione. Ma d’altra parte, non è facile essere accettati in un paese in cui “il fortunato va avanti” come sostiene uno dei protagonisti dei tre documentari proiettati nel corso della giornata dedicata al cinema dell’accoglienza e dell’immigrazione: Life in Italy is ok, C.A.R.A Italia e L’altra città.
Da questa considerazione si snoda l’intero dibattito in cui ci si chiede quanto la società italiana sia effettivamente pronta ad accogliere gli stranieri. Si entra nel vivo della discussione con l’intervento di Yvan Sagnet, portavoce e simbolo della rivolta contro il caporalato, nonché esponente della Cgil. Prima ancora di essere etichettati come immigrati sono persone che la scorsa estate hanno vissuto il dramma della schiavitù nei campi della Masseria Boncuri di Nardò, in provincia di Lecce. Yvan Sagnet, come tanti ospiti della struttura, ha dormito per terra, attendendo ore prima di potersi lavare con acqua gelida. “Per noi immigrati” – prosegue Sagnet – “il caporale viene visto come una figura forte, potente, simbolo di emersione sociale. Quindi difficilmente si protesta al ritiro dei documenti originali sottratti a noi lavoratori. Finché un giorno non vieni a sapere che quei documenti, i tuoi documenti, sono stati sequestrati per far lavorare altri immigrati irregolari”.
Continua Sagnet il suo racconto con animo concitato: “I ritmi di lavoro non danno tregua: ci si sveglia alle due del mattino e si inizia a lavorare alle tre. I caporali vengono con i furgoncini per condurci nei campi. Cinque euro di trasporto, anche se hai la fortuna di avere una bicicletta, vengono sottratti dalla busta paga. A questi si aggiungono quattro euro per un panino e poco più di un euro per l’acqua. Non serve a nulla rimediare procurandosi del cibo da soli. Il caporale ti costringe in ogni caso a ridurre il salario ad una manciata di pochi euro.”
Non è stato facile per Yvan dover convincere i suoi compagni a rivendicare i propri diritti, ma alla fine, difendere il proprio lavoro ha avuto la meglio sulla paura, sulla coercizione e sulle ripercussioni che ogni giorno subiscono gli immigrati per poter lavorare.
Che l’Italia sia da tempo terra di immigrazione non dev’essere un alibi per lasciarsi sedurre dalla condizione ordinaria di impreparazione all’accoglienza. Al contrario dovrebbe essere un motivo in più per fare sempre del meglio. Lo sa bene chi prima ancora di lavorare nell’ambito dell’accoglienza ha vissuto l’esperienza di chi si trova dall’altra parte. “Partire dal basso per arrivare ad intervenire nelle tavole rotonde a favore dei diritti degli stranieri”: prende la parola Klodiana Cuka, presidente di Integra Onlus, che, arrivata in Italia nel 1990, ha visto questo paese cambiare da terra di emigrati a terra di immigrati. Insiste la presidente nell’asserire che l’Italia non è ancora pronta ad accogliere, è una nazione incagliata in una crisi etica prima ancora che politica ed istituzionale. “Non è semplice dover spiegare a coloro che ogni giorno approdano sulle nostre coste come funziona la giustizia, in un paese in cui si finisce in carcere per un paio di notti e poi si ritorna liberi facendola franca”. “Eppure speriamo”, continua la dott.ssa Cuka, “che si possa partire dagli stessi immigrati per fare rete”, per organizzare strategie e ridare dignità alla vita di tanti stranieri, persone costrette a seguire percorsi impervi prima di arrivare alla tanto sospirata meta dell’integrazione sociale. Molti di loro, come lei, sono passati dall’altra parte e adesso sono mediatori interculturali, anch’essi impegnati ad aiutare gli altri come è stato fatto in passato per loro. Le stesse figure di mediatori fanno fatica ad emergere nel caotico universo del lavoro e, anche in questo caso, la presidente di Integra Onlus si impegna a lottare per strappare alla legge italiana un valido riconoscimento per questa professione ed il diritto di avere un contratto collettivo nazionale. La raccolta firme, all’ingresso del Cinema Massimo, per il riconoscimento della figura del mediatore interculturale è solo una delle tante iniziative promosse dall’Associazione Integra Onlus.
Tanti piccoli passi per favorire lo sviluppo e la crescita sociale nel nostro paese. Responsabilità nell’ immigrazione, dunque, significa anche lasciare tracce, far proprio il percorso, qualsiasi sia la meta verso cui guardare.
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